LA CORTE DI APPELLO

    Sulla  questione  di  legittimita'  costituzionale  formulata dal
procuratore  generale in merito al potere di impugnazione della parte
pubblica  avverso le sentenze di proscioglimento, adottate al termine
del giudizio abbreviato,

                            O s s e r v a

    Il  procuratore generale ha sostenuto quanto segue: «premesso che
avverso tale sentenza ha presentato tempestivo appello il Procuratore
della   Repubblica   di  Milano,  chiedendo  che  sia  dichiarata  la
responsabilita'  dei  predetti  imputati  in  ordine  ai  reati  loro
ascritti  e  che il pubblico ministero appellante non ha richiesto la
riassunzione  di prove ex art. 603 c.p.p., si osserva che la Corte si
trova  a  dare  applicazione  alla  legge n. 46 del 20 febbraio 2006,
entrata  in  vigore il 9 marzo 2006, che ha modificato gli artt. 443,
primo  comma,  e  593  c.p.p.,  precludendo  al  pubblico ministero e
all'imputato  l'appello avverso sentenze di proscioglimento, salvo il
caso  in  cui  sia richiesta l'assunzione di una prova che il giudice
reputi  decisiva (situazione questa che non si prospetta nel presente
processo).
    La  norma  transitoria  di cui all'art. 10 della legge n. 46/2006
impone  al  giudice,  innanzi al quale pende l'appello proposto prima
dell'entrata  in  vigore  della  novella,  di  emettere ordinanza non
impugnabile con la quale dichiara l'inammissibilita' dell'appello.
    Pertanto   la  normativa  in  questione  deve  trovare  immediata
applicazione  nella  presente  fase  che vede gli imputati assolti in
primo  grado  all'esito  del  giudizio abbreviato e citati a giudizio
innanzi  alla  Corte  a  seguito dell'appello presentato dal pubblico
ministero   che,   alla   stregua  di  quanto  disposto  dalla  norma
transitoria    sopra    richiamata,    dovrebbe   essere   dichiarato
inammissibile; da qui la rilevanza diretta che assume la questione di
legittimita' costituzionale che si chiede di sollevare.
    Altra valutazione che si impone in questa sede e' quella relativa
alla  non  manifesta  infondatezza  della  questione  di legittimita'
costituzionale delle norme sopra richiamate e in siffatta prospettiva
non si puo' disconoscere che il principio di parita' tra le parti del
processo, sancito dall'art. 111 della Costituzione, appare gravemente
compromesso dalle modifiche introdotte con la novella.
    Poiche'  nel  processo  agiscono  parti  portatrici  di interessi
diversi,  l'art. 111  Cost.  disciplina  come la legge ordinaria deve
regolamentare   l'attribuzione   alle  stesse  parti  delle  facolta'
funzionali all'esercizio delle rispettive pretese.
    La  condizione  di  parita'  che,  alla stregua di quanto sancito
dall'art. 111  Cost., deve essere riconosciuta alle parti dalla legge
processuale,  non  puo', evidentemente, intendersi limitata alla sola
fase  della acquisizione delle prove, ma deve trovare applicazione in
tutto  l'arco  del  processo  fino alla sentenza definitiva, giacche'
sarebbe altrimenti superflua la previsione specifica di cui al quarto
comma del medesimo art. 111.
    La legge n. 46/2006, abolendo la facolta' di appello per imputato
e  pubblico  ministero  a  fronte  delle  sentenze di proscioglimento
emesse a seguito di giudizio ordinario o abbreviato, priva in toto il
pubblico  ministero  del potere di esercitare la pretesa punitiva nei
confronti  di  soggetti  nei  cui riguardi e' stata promossa l'azione
penale.
    L'imputato,  di  contro,  pur  dopo la novella, rimane pienamente
titolare del potere di impugnare la decisione che lo vede soccombente
rispetto alla sua pretesa di vedersi riconosciuto innocente.
    E' pur vero che la medesima riforma restringe rispetto al passato
i  casi  di appellabilita' delle sentenze di proscioglimento da parte
dell'imputato,  ma  e' del tutto evidente che tale restringimento non
opera con la stessa ampiezza e radicalita' per tutte le parti.
    In  realta',  la  riforma  sottrae solo ad una parte, il pubblico
ministero  appunto,  lo  strumento  processuale necessario per vedere
affermata  nel giudizio la fondamentale pretesa di cui e' portatore e
cio'  appare  in  contrasto  con  il principio sancito dall'art. 111,
secondo  comma, Cost., alla cui stregua il processo deve svolgersi in
condizione  di  parita'  tra  tutte le parti, in modo da assicurare a
ciascun  soggetto  processuale  eguali  strumenti per raggiungere gli
obiettivi suoi propri.
    Lo  squilibrio  fra  le  parti  creato  dalla  riforma non appare
ragionevolmente  accettabile  neppure  alla  luce  dei criteri che la
Corte costituzionale ha piu' volte ribadito sul punto.
    Si  e'  affermato,  infatti,  che,  se e' vero che non esiste una
perfetta   simmetria  ed  equivalenza  costituzionale  fra  esercizio
dell'azione  penale  e  diritto  di  difesa,  e' altrettanto vero che
sarebbe  censurabile  sotto  il profilo della ragionevolezza la legge
ordinaria  che,  sbilanciando fra di loro le facolta' attribuite alle
parti  del  processo,  rendesse  di  fatto  il  potere  del  pubblico
ministero  inidoneo  all'assolvimento  del  compito  che  gli assegna
l'art. 112 Cost.
    Ne'  e'  possibile  individuare  spunti  di  ragionevolezza nella
riforma in esame facendo riferimento ad altre modifiche normative che
nel  corso  del  tempo  hanno  ristretto  le facolta' processuali del
pubblico  ministero rispetto a quelle riconosciute all'imputato e che
hanno  superato  il  vaglio  di  costituzionalita' della Corte cost.,
come,  ad esempio, la norma di cui all'art. 443.3 c.p.p. (che esclude
la  possibilita'  di  appello  da  parte  del  p.m. della sentenza di
condanna  pronunciata  a  seguito di giudizio abbreviato); si tratta,
invero, di situazioni non comparabili tra loro, come ha avuto modo di
rilevare  la  stessa  Corte costituzionale che, pur affermando che la
parita'  tra  le  parti  non  deve  essere  intesa  nel  senso di una
identita'  di  poteri processuali, ha pero' ribadito che un'eventuale
disparita'  di  trattamento  si  giustifica ragionevolmente solo alla
luce  della  peculiare  posizione  istituzionale  del  p.m.  e  delle
esigenze  connesse  alla  corretta  amministrazione  della giustizia,
prima   fra   tutte   quella,   costituzionalmente   prevista,  della
ragionevole  durata  del processo che in particolar modo nel giudizio
abbreviato trova attuazione.
    Ed  e'  allora  proprio  la rinuncia da parte dell'imputato ad un
altro  dei  principi  cardine del giusto processo (il contraddittorio
nella   raccolta   delle   prove)  a  giustificare  l'asimmetria  che
l'art. 443.3  c.p.p.  produce  nel  sottrarre  al p.m. la facolta' di
appellare  la  sentenza  di  condanna  emessa  a  seguito di giudizio
abbreviato.
    Alle  osservazioni gia' svolte dalla Corte cost. puo' aggiungersi
poi la considerazione che il restringimento della facolta' di appello
per  il  p.m.  in  caso  di  giudizio  abbreviato  ha pur sempre come
presupposto   l'avvenuta  pronuncia  di  una  sentenza  di  condanna,
laddove,   ben   piu'   radicalmente,   ora  risulta  compromessa  la
possibilita'  per il pubblico ministero di proporre appello contro le
sentenze  di  proscioglimento  dell'imputato, con il risultato di dar
luogo  ad  un  effetto  paradossale,  dal  momento  che  il p.m. puo'
appellare  le sentenze di condanna che modificano il titolo del reato
e non puo' appellare, invece, le sentenze di proscioglimento.
    Pertanto,   neppure   in   nome  del  bene  costituzionale  della
ragionevole  durata  del processo puo' trovare giustificazione questa
piu'  radicale  asimmetria  introdotta  con  la modifica normativa in
esame;  non a caso nello stesso messaggio con cui il Capo dello Stato
il  13  gennaio 2006 ha richiesto alle Camere una nuova deliberazione
in   ordine  alla  legge  in  esame  si  e'  rimarcato  il  carattere
disorganico e asistematico della riforma.
    Altro argomento che rafforza il convincimento della non manifesta
infondatezza   della   questione   e'  costituito  da  una  ulteriore
ingiustificata   disparita'   di  trattamento  che  si  e'  venuta  a
realizzare  tra il pubblico ministero e la parte civile, per la quale
e'  sopravvissuta  la  possibilita'  di  proporre  appello avverso le
sentenze   di   proscioglimento   per   effetto   della  soppressione
dell'inciso  "con  il mezzo previsto per il pubblico ministero", gia'
contenuto nel testo dell'art. 576 c.p.p., e poco importa che cio' sia
avvenuto  a  seguito  di una specifica osservazione critica formulata
dal Capo dello Stato nel suo rinvio alle Camere del testo originario,
perche'  cio' che rileva e' il fatto che, alla stregua della riforma,
l'organo  privato  d'accusa  ha  mantenuto  un potere di impugnazione
maggiore  rispetto  a  quello  riconosciuto  all'organo  pubblico  di
accusa,   in   tal   modo   configurandosi  un  ulteriore  motivo  di
irragionevolezza  della  novella legislativa che arriva a tutelare in
modo  piu'  efficace il diritto al risarcimento dei danni della parte
privata  rispetto  alla  pretesa  punitiva dello Stato esercitata dal
pubblico ministero.
    Per  quanto  concerne  il  giudizio  abbreviato,  va rilevato che
l'articolo  576,  comma 1, ultima parte, cod. proc. pen., prevede che
la  parte  civile  puo'  proporre  impugnazione  contro  la  sentenza
pronunciata  a  norma  dell'art. 442  quando  abbia  consentito  alla
abbreviazione del rito. Anche con riferimento al giudizio abbreviato,
quindi,  deve ritenersi che la sentenza di proscioglimento sia ancora
appellabile  dalla  parte civile e che si sia determinata in tal modo
una disparita' di trattamento fra parte civile e pubblico ministero.
    Alla  stregua delle esposte considerazioni si chiede che la Corte
di  appello,  ai sensi degli artt. 134 della Costituzione e 23, legge
11 marzo   1953,  n. 87,  dichiari  rilevante  e  non  manifestamente
infondata la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 443
c.p.p.  (cosi'  come  modificato  dall'art. 2 della legge 20 febbraio
2006, n. 46) e 10 della medesima legge per violazione degli artt. 3 e
111  della Costituzione nella parte in cui non consentono al pubblico
ministero di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento,
disponendo   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
costituzionale  e  sospendendo  il  giudizio  in corso e i termini di
prescrizione dei reati».
    Tanto  premesso,  ritenuto che la questione e' di ovvia rilevanza
perche'  la  vigente  normativa  e'  ostativa  alla  prosecuzione del
giudizio   e   che   le  argomentazioni  esposte  analiticamente  dal
procuratore generale sono condivisibili.
    Gli  argomenti  addotti  dalla  difesa in data odierna e peraltro
riportati  in una recente decisione di altra sezione di questa Corte,
pur  non  privi  di  pregio,  non valgono ad elidere la non manifesta
infondatezza  dell' eccezione sollevata dal p.g., nei confronti della
quale  questa  Corte  deve  limitarsi  ad  esprimere  una valutazione
delibativa  preliminare,  senza necessariamente spingersi ad un esame
approfondito  della  questione  sollevata,  al  fine di superare ogni
dubbio  sulla eventuale illegittimita' costituzionale della normativa
indicata,  posto  che  le  limitate  differenze fra le parti ritenute
legittime  in  precedenti  decisioni  del  Giudice  delle  leggi, non
sembrano  poter  palesemente  giustificare  lo  squilibrio denunciato
dalla parte pubblica.